mercoledì 25 aprile 2018

I Dark Angel e Time Does Not Heal: 9 Songs, 67 Minutes, 246 Riffs

Dopo l'uscita di "We Have Arrived" (1985), "Darkness Descends" (1986) e "Leave Scars" (1989), i Dark Angel fecero uscire per la Combat "Time Does Not Heal".
Siamo nel lontano 19 febbraio 1991 e la lineup della band comprendeva: Ron Rinehart (vocals),
Eric Meyer (guitars), Brett Eriksen (guitars), Mike Gonzalez (bass) e il mostro Gene Hoglan (drums).
Sulla cover del disco campeggiava un sinistro adesivo:

 “9 songs, 67 minutes, 246 riffs!”

Una scritta che pare un avvertimento nei confronti dell’ignaro ascoltatore che si trovava tra le mani un disco tutt'altro che facile da assimilare/capire. 
Effettivamente il successo del disco, ai tempi, fu molto tiepido.
Verrà però rivalutato dopo diversi anni.
In verità, il disco tutt’oggi viene ancora criticato, specie dai fan della prima ora del gruppo, a causa dell’articolatezza dei brani, della loro complessità e, in sostanza, della loro mancanza di immediatezza.
Anche le vocals di Rinehart furono criticate o quantomeno la maggiorparte preferiva la voce più grezza di Don Doty.
Le canzoni che compongono il disco sono un mirabolante intreccio di tecnica e capacità compositiva assolutamente fuori dal comune. 
Le tipiche ripartenze del Thrash, facendo riferimento al grezzume tedesco ma anche a quello Bay Area degli anni 80, qui sono occultate, e soltanto dopo diversi ascolti attenti e concentrati se ne potranno percepire la furia bieca e la potenzialità distruttiva. 
L’ascoltatore viene completamente assalito, avvolto e imbrigliato in una ragnatela impenetrabile di riff frenetici e martellanti, assoli su assoli, ritmiche e finezze batteristiche che si susseguono con una disinvoltura disarmante.
La velenosa e a tratti persino ripetitiva voce di Ron Rinehart contribuisce a dare una sensazione di disumanità.
Ed al di là delle critiche, le sue vocals si adattano bene al mood cupo ed oscuro di brani quali "Pain's Invention", "Madness" o "Sensory Deprivation".
Gli assoli invece rendono più frenetico e senza soste il disco. 
Le lunghe ed articolate composizioni della band non tolgono infatti nulla, ma anzi aggiungono, al risultato finale: i fantastici intrecci dei due chitarristi ci regalano trame ritmiche velocissime ed intricate, splendidamente supportate dal geniale Gene Hoglan.
In barba a tanta tradizione quindi, "Time Does Not Heal" contiene appunto canzoni lunghissime (mediamente oltre sette minuti) fatte di infinite sezioni strumentali in cui la band sfodera capacità tecniche mostruose nell'eccellente lavoro ritmico, ottenuto variando continuamente il riff portante, infilando spaventosi cambi di tempo nonché stacchi e ripartenze ma anche in quello solistico, velocissimo e pulitissimo.
Capolavori come "The New Priesthood" (con violenti attacchi alle dottrine ecclesiastiche ritenute dittatoriali), la sezione ritmica di "Trauma And Catharsis" e  "A Subtle Induction" sono canzoni leggendarie senza sè e senza ma.
Analizzando nel complesso il lotto di canzoni, infine, non si può tralasciare il discorso testi, molto impegnati e particolari che, oltre a trattare tematiche riguardanti la società moderna, vanno ad esaminare un argomento scomodo come quello dello stupro femminile, visto questa volta dal punto di vista di una donna (come anche la cover del disco dimostra).
Questo disco fu il "canto del cigno" della band, visto che si sciolse all'improvviso per forti diverbi tra i vari componenti. 
L'ultima uscita discografica del gruppo fu la raccolta "Decade Of Chaos" del 1992. 
Mentre degli altri membri non si sentirà più parlare, Hoglan entrò a far parte di band del calibro di Death e Testament.

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